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Spinoza, Baruch.

Filosofo olandese. Appartenente a una famiglia ebrea di rito sefardita, originaria del Portogallo ma emigrata in Olanda dopo l'espulsione degli Ebrei portoghesi nel 1497, fu destinato a diventare rabbino. Si formò secondo la più stretta ortodossia rabbinica allo studio del Talmud, ma ampliò la sua istruzione con il latino e le discipline scientifiche alla scuola laica di un dotto olandese, da cui apprese anche le possibilità del libero pensiero, svincolato dall'ingerenza delle credenze religiose. Il suo percorso intellettuale lo condusse nel 1656 alla scomunica e all'allontanamento dalla comunità israelitica di Amsterdam «per eresie praticate e insegnate». Prima nella stessa Amsterdam, poi in altre località olandesi (nei pressi di Leida e poi dell'Aia) si mantenne con i proventi del suo mestiere di ottico, dedicandosi alla ricerca filosofica e difendendo con intransigenza la propria indipendenza intellettuale. Nel corso degli anni approfondì la frequentazione di circoli di liberi pensatori olandesi, tutti membri della borghesia che allora deteneva il potere di fatto nelle Province Unite; tra essi egli fu particolarmente legato a J. De Witt, capo del Partito repubblicano olandese, come attesta anche il suo Epistolario. La prima opera cui S. lavorò fu il Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua beatitudine (per un certo periodo perduto ma riscoperto e pubblicato a metà dell'Ottocento). Nel 1663 venne pubblicata l'unica opera a nome di S. mentre il filosofo era ancora in vita: Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae, Pars I et II, more geometrico demonstratae et Cogitata metaphysica. Infatti il Tractatus theologico-politicus venne diffuso anonimo nel 1670; le tesi in esso contenute e la perorazione del libero pensiero, secondo il quale in una comunità ciascuno dovrebbe poter pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa, furono immediatamente condannate dalle Chiese sia protestante sia cattolica. Anche per timore di un ostracismo più radicale e pericoloso, determinato dall'accusa di ateismo, S. abbandonò l'idea di stampare il suo lavoro più complesso e impegnativo, ma lo fece circolare solo entro circoli di amici e in forma manoscritta: l'Ethica more geometrico demonstrata, cui lavorò a partire dal 1660 e che concluse nel 1674, fu pubblicata solo postuma, per volontà degli amici del filosofo, insieme a due trattati incompiuti (il Tractatus politicus e il Tractatus de intellectus emendatione) e al Compendium grammatices linguae hebreae. ║ Il problema gnoseologico nelle opere giovanili: nella formazione del pensiero di S. sono rintracciabili, con sufficiente evidenza, elementi che afferiscono alle tre tradizioni culturali attive nel suo retroterra di intellettuale. Nella sua speculazione confluirono infatti l'eredità ebraica, l'impostazione neoplatonica e l'innovazione cartesiana, in quanto massima espressione della nuova filosofia matematica della natura. Ad esse si aggiunse la conoscenza della filosofia di G. Bruno, con il quale S. condivise la visione panteista e immanentista. Difficilmente si può invece parlare di evoluzione del pensiero di S. nel senso di un graduale attestarsi su posizioni via via differenti; sembra più corretto parlare di maturazione dello Spinozismo, in un progressivo chiarirsi e approfondirsi di alcuni temi centrali e costanti, la cui trattazione costituisce già le prime opere ma culmina e si distende nelle pagine dell'Ethica. Gi scritti che il filosofo lasciò incompiuti, infatti, sono tali perché le problematiche che vi erano affrontate avevano trovato miglior disposizione all'interno dell'opera principale. Nel Breve trattato, terminato già nel 1660, S. cercava di formulare in termini razionali (cioè a prescindere dai testi sacri) i contenuti delle religioni ebraica e cristiana: Dio è causa infinita del mondo (inteso come l'insieme di tutti i fenomeni) nello stesso modo in cui un postulato geometrico è causa di tutte le sue conseguenze. Dal momento che è infinito, inoltre, Dio risulta causa immanente del mondo, non distaccato da esso (panteismo): conseguenza pratica di questa visione è che la ragione, in quanto comprende le cose particolari in rapporto alla sostanza infinita che ne è la causa, può condurre l'uomo all'amore universale, superando le inimicizie frutto del desiderio di cose particolari. In questa opera si individuano numerosi elementi caratteristici del pensiero spinoziano: il concetto neoplatonico di Dio come causa unica, quello cartesiano di Dio come sostanza e il precipuo interesse per le ricadute in campo morale, politico e religioso degli assunti metafisici dimostrati. Il De intellectus emendatione prosegue su questa linea, ponendosi come un omologo del Discorso sul metodo di Cartesio: S. aveva già indicato nei Pensieri metafisici i punti in cui il suo pensiero divergeva da quello cartesiano. Uguale tuttavia era la necessità di individuare un metodo che consentisse all'uomo di attingere la vera conoscenza della causa unica e infinita, che si definisce anche come vero bene. La conoscenza è data da idee e un'idea, per essere tale, deve esprimere l'essenza di ciò cui afferisce. Ne consegue che un'idea falsa è tale solo in quanto errata associazione, operata dall'uomo, di idee in sé vere: verità e falsità sono dunque determinate dall'ordine, rispettivamente corretto o scorretto, che il soggetto attribuisce alle idee. Lo strumento mediante il quale è possibile assumere un ordine corretto delle idee è la definizione: essa consiste nella connessione di un oggetto da un lato alla sua causa e dall'altro a tutti i suoi possibili effetti. È però evidente che esistono cose che possono essere definite indipendentemente da qualsiasi altra: esse sono le idee dell'infinità, da cui si possono dedurre tutte le idee delle cose finite. Questo è l'ordine corretto che consente la vera conoscenza: idee ben ordinate sono infatti vere e dunque esprimono l'essenza delle cose. Perciò a un ordine corretto delle idee corrisponde un ordine analogamente corretto delle cose: come le idee finite derivano da un'idea infinita, così le cose finite deriveranno da una causa infinita. Nell'apprendere ciò sta dunque l'emendatio intellectus (la riforma dell'intelligenza): liberato dal carattere accidentale dell'esperienza sensibile, l'uomo può riconoscere la disposizione delle idee e delle cose come derivazioni rispettivamente da un'idea e da una causa infinita. Emerge con chiarezza il superamento del dualismo cartesiano: mentre Cartesio aveva sostenuto (sulla base della distinzione tra res cogitans e res extensa) la reciproca indipendenza tra oggetto della fisica-matematica e oggetto della filosofia-teologia, S. riuscì a connettere direttamente Dio al mondo fenomenico mediante il metodo definitorio che, infine, è così riassumibile: solo enti infiniti possono essere definiti senza rinviare ad altri enti e dunque essere considerati come principi necessari, e perciò sicuramente esistenti, da cui derivare i processi causali finiti. ║ L'Ethica: nell'opera che raccolse gli approfondimenti speculativi di tutta la sua vita (la prima stesura venne effettuata tra il 1661 e il 1665, ma la revisione finale fu operata tra il 1670 e il 1674), S. si impegnò in una riforma radicale del Cartesianesimo. Muovendo dagli assunti fondamentali del pensiero di Cartesio (concetto di sostanza e dualismo pensiero/estensione), S. svolse il suo ragionamento nella forma di un rigore euclideo, procedendo per definizioni, assiomi e corollari (donde il titolo more geometrico demonstrata: definita secondo il metodo geometrico). In base al metodo definitorio succitato, S. definisce la sostanza come ciò che è in sé e si concepisce di per sé, cioè il cui concetto non necessita di altri concetti. Essa è causa sui, cioè la sua essenza implica la sua esistenza ed è unica e infinita, perché diversamente sarebbe limitata e condizionata da un'altra cosa, fatto che contraddirebbe la definizione iniziale. Secondo la terminologia aristotelica, dunque, la sostanza è insieme causa e soggetto: in quanto soggetto ha infiniti attributi, intendendo per attributo ciò che l'intelletto percepisce come costitutivo della sua essenza. Noi però conosciamo due soli attributi della sostanza (da S. chiamata Deus sive natura: Dio o natura): l'estensione e il pensiero (si noti la divergenza con Cartesio, per il quale le sostanze erano tre: divina, pensante ed estesa, di cui le ultime due derivanti dalla prima). Attraverso le modificazioni di questi due attributi la sostanza si manifesta nelle forme dei fenomeni materiali e dei fenomeni spirituali: infatti i modi dell'estensione sono i corpi e quelli del pensiero sono le idee. I modi di un attributo non agiscono su quelli dell'altro perché ciascuno di essi è concepito per sé indipendentemente dall'altro: tuttavia, in quanto riferiti entrambi alla medesima e unica sostanza infinita, i modi del pensiero e dell'estensione si corrispondono perché hanno tutti nella sostanza la loro causa. Così procedendo, S. supera il dualismo cartesiano anima-corpo, spirituale-materiale, fisica-filosofia: l'ordine e la connessione delle idee sono identici e paralleli all'ordine e alla connessione dei corpi. Ciascun elemento dell'una o dell'altra serie, infatti, non è altro che il medesimo tra gli infiniti effetti derivati dalla sostanza infinita, osservato ora secondo l'attributo del pensiero ora secondo quello dell'estensione. Posto dunque che i fenomeni particolari sia materiali sia spirituali non sono che i modi in cui si declinano gli attributi della sostanza infinita, ne consegue che quella sostanza è, in quanto comprende in sé tutti i propri effetti, causa infinita, efficiente e immanente. Ne deriva che nulla di ciò che esiste - corpo o idea - è contingente, ma tutto è necessario perché necessariamente derivato dalla sostanza infinita: la natura naturante è la sostanza considerata nella sua essenza infinita, unica, causale e immanente; la natura naturata è la medesima sostanza considerata in quanto complesso delle infinite modificazioni dei suoi attributi (secondo tale accezione è talvolta usato da S. il termine creazione). Da ciò si deduce che nulla può esistere fuori dalla natura (o da Dio): Dio infatti non produce i modi per mezzo di un'azione creatrice volontaria. La libertà dell'azione divina coincide con la sua necessità, cioè con il suo essere conforme alla sua potenzialità: ciò che può essere deve essere, non esiste contingenza ma necessaria derivazione dalla necessaria natura divina. Le cose non avrebbero potuto essere prodotte in modo o in ordine diverso da come sono, perché Dio non ha una volontà indifferente o libera ma solo necessaria. In questa prospettiva i modi individuali degli attributi sono tutti necessitati: il primo e inferiore grado della conoscenza umana, chiamato da S. immaginazione e basato sulle impressioni immediate e sensibili dell'esperienza, fa erroneamente ritenere che tali singoli enti siano contingenti e autonomi. Attraverso un secondo e superiore grado di conoscenza intellettuale, che presuppone l'immaginazione ma ne è indipendente perché opera secondo la ragione, si passa dalla congerie esperienziale dei molteplici esseri individuali alla ricostruzione della catena causale (secondo il metodo definitorio succitato): la ragione costruisce le scienze (logica, fisica, matematica) organizzando le idee non in base ai singoli enti ma in base alle relazioni. Il vero limite di questo grado di conoscenza, tuttavia, consiste in parte nei condizionamenti fenomenici da cui il processo mentale non può completamente affrancarsi, ma soprattutto dal fatto che la ricostruzione della serie di causalità implica un regresso potenzialmente infinito. Attingere la visione dell'unica sostanza, che supera le fallaci distinzioni della realtà e perfino quella tra bene e male che deriva solo dall'ignoranza della necessità intrinseca di ogni fenomeno, è possibile solo con un terzo e supremo grado di conoscenza, quella intuitiva. In sintesi, la conoscenza è un'ascesa: l'immaginazione vede il mondo nella contingenza del tempo, la ragione lo attinge sub quadam aeternitatis specie (secondo la dimensione di una certa eternità) e l'intuizione lo vede sub specie aeterni (secondo la vera dimensione dell'eternità). Esplicitate le fondamenta di tipo logico e metafisico, l'Ethica di S. considera le implicazioni sul piano antropologico e morale, esaminando le passioni umane, la servitù ad esse e la libertà da esse. Scopo dell'Ethica sarebbe infatti realizzare il grado di conoscenza intuitiva, cioè il più elevato, avente come oggetto l'uomo e il suo comportamento. Il corpo dell'uomo, in quanto essere individuale, può o subire l'azione di un altro corpo che tende ad annullare il suo essere o esercitare a sua volta un'azione che tende invece a preservare il proprio sé: in questi due casi si producono nella mente le due emozioni fondamentali, da cui derivano tutte le altre, rispettivamente di dolore e di piacere (tristezza e gioia; odio e amore, ecc.). Ne consegue che all'emozione del piacere si connette il concetto di utile (ciò che concorre alla conservazione dell'individuo) e a quella di dolore il concetto di nocivo (ciò che mira all'annullamento dell'individuo). Se però la valutazione di quanto è utile o meno dipende solo dalle emozioni che derivano all'animo umano dalle vicende del corpo, ne consegue che l'uomo è servo dei suoi affetti. La libertà da questi si ottiene grazie a una morale geometricamente dimostrata: ogni individuo tende a conservare il proprio essere mediante uno sforzo che, se riguarda solo il corpo, è detto conatus, se è frutto solo della mente, è detto volontà, se infine coinvolge entrambi, è detto appetito. L'appetito è l'essenza stessa dell'uomo, lo stimolo a perseguire l'utile, cioè la conservazione di sé, che coincide con il bene: bene e male, infatti, si definiscono in rapporto all'utilità o alla nocività di una cosa per la conservazione dell'individuo. Quando la determinazione di ciò che è utile non viene fatta dipendere dalle emozioni casuali ma dalle relazioni dimostrabili (causa-effetto) tra le cose, il bene così individuato sarà quello che potenzia l'essere in quanto ragione, secondo cioè la facoltà che permette di conoscere l'ordine corretto delle cose e delle idee, di attingere la sostanza infinita. La conoscenza, dunque, si propone qui come un compito etico, che consente il superamento delle passioni, l'annullamento dell'antagonismo e delle lotte che contrappongono i singoli uomini, ciascuno alla ricerca del proprio utile immediato. La vita virtuosa è, per S., la realizzazione dell'essere come ragione, per attingere la sostanza infinita, supremo piacere intellettuale, amor Dei. Da ciò derivano anche l'amore per tutti gli uomini e gli esseri, dal momento che la sostanza infinita è presente in tutti gli individui, e l'accettazione serena di tutta la realtà, come necessaria e compresa in quella stessa sostanza divina. Al di là della dimostrazione per assiomi e teoremi, si tratta qui di un'etica classica di tipo neostoico, diffusa tra gli intellettuali a partire da Montaigne e da Cartesio, che raccomanda l'emancipazione dai beni materiali, la predilezione per le attività spirituali, la limitazione dei bisogni e la capacità di accettare la realtà, comunque essa sia, quando essa appaia non modificabile. S. ha in più fondato questa precettistica su di un ordine logico e metafisico, meticolosamente illustrato. ║ Il Tractatus theologico-politicus: un altro importantissimo corollario della concezione metafisica spinoziana è la teoria politica, svolta in questa opera congiuntamente alla critica della superstizione. L'indagine spinoziana mira infatti a sottrarre il pensiero religioso alla servitù della superstizione per restituirlo all'attività della ragione: S. fu infatti uno dei primi a considerare l'esegesi biblica secondo un esame storico e testuale dei Libri sacri (formulò proposte di nuove datazioni e attribuzioni per i testi biblici, ad esempio rifiutando l'attribuzione del Pentateuco a Mosé). Per quanto riguarda i contenuti, S. riteneva che la Bibbia non offrisse verità di tipo filosofico o scientifico, ma solo precetti di ordine etico-pratico che richiedono obbedienza e fede ma non esercizio della ragione e dunque non contrastano con la sua filosofia, che egli rivolgeva a coloro che erano in grado di attingere la virtù con la sola forza della ragione. Se la religione in sé non contrasta con gli insegnamenti della ragione, la superstizione nasce quando i contenuti particolari di un testo sacro sono assunti come indubitabili, a prescindere dalle circostanze storiche e culturali in cui sono stati formulati: essi diventano allora incomprensibili, esercitano sulle masse ignoranti il fascino del mistero e sono utilizzati dai potenti come strumento di potere e di dominio per controllare i pensieri e le azioni del popolo. Il conculcamento della libertà di coscienza e di credenza religiosa, però, non ha alcuna giustificazione nelle strutture originarie del potere politico, dal momento che lo Stato può legittimamente sindacare solo sulle azioni esterne dei suoi cittadini e non sui pensieri. Secondo S. il potere politico nasce da un patto culturale tra gli uomini. In origine ciascun individuo è dotato di un diritto di natura, che coincide con la propria potenza: secondo natura, cioè, ciascun essere ha diritto di fare tutto ciò che ha la potenzialità di fare, a dimostrazione, quindi, che diritto e potenza coincidono. Lo scontro continuo tra il diritto naturale di ogni individuo in conflitto con i diritti di tutti gli altri (conflitto determinato dal fatto che la maggior parte degli individui erano e sono dominati dalle passioni e dagli affetti e non dalla ragione) spinse gli uomini a unirsi in base a un patto, o contratto sociale, secondo il quale il diritto naturale di ciascuno veniva gestito collettivamente, cioè secondo la volontà di tutti. Ne deriva che tutti gli individui alienano volontariamente una parte del proprio diritto naturale in favore di un potere sovrano (in genere rappresentato da un re), in cambio di tranquillità, sicurezza e non belligeranza tra i singoli. Il potere sovrano, dunque, è legittimo nella misura in cui garantisce ai suoi sudditi i beni per ottenere i quali essi hanno rinunciato a parte dei propri diritti naturali. Inoltre, il potere non è legittimato ad arrogarsi diritti che il patto sociale non gli ha destinato: ad esempio, la libertà di pensiero e di credenza è inalienabile ed è dunque illegittima l'imposizione del pensiero religioso da parte del potere. Dal patto sociale nasce dunque una comunità di uomini che decidono di vivere insieme senza danneggiarsi, in cui un potere costituito è investito della facoltà di decidere ciò che è bene e ciò che è male per la comunità stessa. Ne nasce una società regolata da leggi, che è lo Stato: la sua volontà deve essere espressione della ragione e liberazione dagli appetiti dei singoli cittadini. Nello stato di natura, infatti, dove ciascuno giudica da solo ciò che è bene e ciò che è male, provvedendo al proprio utile, se tutti gli uomini vivessero secondo ragione ognuno potrebbe seguire il proprio utile senza ledere i diritti altrui. Poiché tuttavia gli uomini sono guidati dalle passioni, ed esse non possono essere tenute a freno se non da una passione contraria e più forte, è necessario che esista uno Stato che imponga norme a tutti i cittadini, giudicando al loro posto ciò che è giusto o ingiusto (Amsterdam 1632 - L'Aia 1677).